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  • Legge elettorale, criticità e ipotesi di riforma. Si può andare al voto con il Porcellum?

    La controversa approvazione della legge Calderoli (21 dicembre 2005, n. 270 ) avvenuta all'estremo limite finale della XIV legislatura, ha determinato - almeno formalmente - l'esclusione del nostro paese dal novero delle democrazie dotate, per l'elezione dei componenti del Parlamento nazionale, di sistemi elettorali a “ vocazione” maggioritaria. E questo è avvento, con l'abbandono del sistema elettorale prevalentemente maggioritario- uninominale a turno unico, in vigore dal '93 ( cd. Mattarellum) per introdurre, diversamente, una formula elettorale atipica e di problematica qualificazione, che contiene al suo interno significativi elementi di natura proporzionale.

    Prima però di entrare nel merito dell'analisi, è bene circoscrivere le due formule elettorali quella proporzionale e quella maggioritaria a due mere ipotesi di scuola che nella realtà e complessità dei sistemi elettorali ( nazionale e sovranazionali) tendono a confondersi l'una con l'altra. Infatti, difficilmente, si può parlare a priori di sistemi tout court maggioritari, come del resto è difficile pensare a sistemi tipicamente imperniati nella logica proporzionale. Esistono, diversamente, modelli complessi e misti che tendono a sintetizzarsi con elementi e tratti tipici dell'uno o dell'altro sistema. Ecco perché anche la “Legge Calderoli”, meglio conosciuta come “Porcellum” non può scostarsi da queste premesse logiche e fenomenologiche, per indirizzarsi, diversamente, su una valutazione d' insieme che tenga presente sia degli aspetti positivi che negativi della legge, ma anche si tenga al riparo da facili contrapposizioni filosofiche che hanno per decenni contraddistinto i fautori dell'uno o dell'altro sistema elettorale.

    Detto questo, come anticipato - ad inizio articolo – dopo la breve parentesi in senso maggioritaria dal '93 al 2005, oggi si è ritornati - almeno in una visione di facciata - al meccanismo di riparto di seggi in Parlamento legato alla formula proporzionale, che si differenzia dal maggioritario per il fatto di essere considerato maggiormente dotato di elementi di democraticità, e per il diverso meccanismo di riparto dei seggi. Infatti, il sistema elettorale maggioritario, tende a dare maggiore stabilità all'ordinamento, attribuendo i seggi in palio ai candidati che abbiano ottenuto la maggioranza dei voti, ma va di riflesso a penalizzare quelle forze politiche meno rappresentative. Ragion per cui, già i nostri Padri Costituenti si espressero manifestamente per un sistema proporzionale puro, che avesse nella logica di “ una testa un voto” la sua caratteristica elettiva. E ciò , per dare rappresentanza anche alle più piccole forze elettorali, e di contro scongiurare alla radice la possibilità di un'ipotetica riaffermazione di solide maggioranze, ritenute - giusto o torto per il volgersi della storia pregressa – pericolose per il concetto stesso di democrazia. E riconoscendo, altresì, al concetto di rappresentatività una posizione valoriale di superiorità rispetto a quello di “stabilità e governabilità”. Cosa che del resto ha accompagnato e permeato l'intero assetto pluripartitico della Prima Repubblica, e per certi versi anche della Seconda, dove le forze residuali e marginali hanno pesato sia in termini di stabilità delle alleanze politiche che sulla durata dei Governi.

    Andando ad analizzare gli elementi peculiari di questo sistema elettore, si evince sin da una prima lettura che si tratta di un “proporzionale di coalizione”, ovvero si riconosce un premio di maggioranza in favore della lista o coalizione di liste reciprocamente collegate che ottengono la maggioranza di voti in termini non assoluti ma relativi. Con la previsione ulteriore, per accentuare la selettività del meccanismo di riparto dei seggi, di una soglia di sbarramento diversa per la Camera e per il Senato. Difatti alla Camera dei Deputati, tale sistema si articola nel modo seguente: possono concorrere al riparto dei seggi soltanto le coalizioni di liste che abbiano ottenuto almeno il 10 per cento dei suffragi, e sempre che contengono al loro interno una lista che abbia raggiunto il 2 per cento dei consensi. Se, invece, una lista abbia optato per correre da sola, senza legarsi, deve ottenere almeno il 4 per cento dei voti a livello nazionale. All'interno, poi, delle singole coalizioni, concorrono alla ripartizione dei seggi le liste che abbiano superato il 2 per cento dei voti, nonché la lista cosiddetta “miglior perdente”, vale a dire quella che, tra tutte le liste al di sotto della soglia del 2 per cento, abbia ottenuto la percentuale di voti più elevata.

    Per quanto riguarda il Senato della Repubblica, in ossequio alla devoluzione di poteri in senso federale avviata nel lontano 1999, e poi confermata nel 2001 e approdata oggi nel federalismo fiscale di inizio anno, il collegio elettorale di riparto dei seggi non è - come ricordato per la Camera - su scala nazionale ma regione per regione. Ciò, implica che anche il premio di maggioranza e la soglia di sbarramento siano da calcolare su base regionale, e cioè il 3 per cento dei consensi per le liste coalizzate, e per quelle invece che concorrono da sole, la soglia si alza all'8 per cento sempre su base regionale. E' evidente che una simile impostazione, su due livelli , nazionale e regionale, crea all'indomani del voto popolare una situazione di alea - in merito alle condizioni di governabilità - che incide fortemente sull'efficacia e sulla ragionevolezza del impianto generale del sistema elettorale. Ragione quest'ultima che, da sola, implica de iure contendo, la necessità di accompagnare alla riforma della legge elettorale, anche una riforma di sistema per il superamento del bicameralismo perfetto, che non imponga – nelle migliori ipotesi - al Governo di chiedere la fiducia in ambo i rami del Parlamento.

    Altro elemento caratterizzante la presente legge - e che denota anche una sua originalità per quanto riguarda la nostra cultura storica in termini di sistemi elettorali - e al tempo stesso sotto certi punti di vista ha rappresentato una sorta di casus belli, ha a riguardo il carattere del voto, che sia alla Camera che al Senato si esprime con una lista bloccata di candidati, che si traduce in un sistema di scorrimento di lista. In altri termini, sono i partiti a scegliere nelle l'ordine di scorrimento all'interno della lista, e cioè sono i dirigenti di partito a decidere chi ha le maggiori chance di essere eletto nel Parlamento. Questo sta a significare che l'elettorato, si trova a esprimere la propria preferenza su un simbolo che richiama uno schieramento e un leader, nonché un programma, ma che di fatto non ha alcun potere sulla scelta del candidato. Cosa che da più parti, insieme all'ampiezza del collegio, che per la Camera addirittura coincide con il territorio nazionale, rimane una delle critiche di maggior rilievo al testo in esame. Si è finito, così, col determinare un rilevante fattore di allontanamento e di incomunicabilità tra elettori ed eletti, e lo si è fatto minando quel sano rapporto di responsabilità politica che lega il corpo elettorale ed i suoi rappresentati. Sotto questo profilo, dunque, l'elemento maggiormente criticabile della “legge Calderoli” non va rintracciato, tanto, sull'opzione per il sistema delle liste bloccate in sé - che escludono la possibilità per l'elettore di esprimere preferenze – quanto, invece, nell'aver optato per un modello di lista “lungo”, vale a dire collocato all'interno di circoscrizioni, in cui, nella stragrande maggioranza dei casi, gli elettori non riescono neppure a conoscere l'identità dei candidati del partito che votano.
    Più ragionevole sarebbe apparsa, invece, la scelta per un modello di circoscrizioni elettorali di più limitate dimensioni, in cui potessero concorrere liste bloccate brevi, proprio come accade, ad esempio, nel modello spagnolo. Ragion per cui, è apprezzabile come ipotesi di riforma elettorale, e che sembra circolare da ambienti della maggioranza attuale, la volontà di conservare sostanzialmente l'attuale meccanismo delle liste bloccate ma introducendo una sorta di obbligo per i partiti alla consultazione preventiva degli elettori nella selezione dei candidati al Parlamento. “Un testo del genere lo stà preparando uno dei maggiori esperti di sistemi elettorali del centrodestra, Peppino Calderisi” come si evince dalle colonne del “il Foglio “di Giuliano Ferrara del 4 marzo.

    Infine concludo, con una verità di fondo e che è stata bene sintetizzata da un noto parlamentare aretino a proposito di riforma della legge elettorale: “ Siamo sempre li'. I partiti scaricano sulla legge elettorale le loro insufficienze e aggiungono danno al danno.”
  • Legge elettorale, criticità e ipotesi di riforma. Si può andare al voto con il Porcellum?

    La controversa approvazione della legge Calderoli (21 dicembre 2005, n. 270 ) avvenuta all'estremo limite finale della XIV legislatura, ha determinato - almeno formalmente - l'esclusione del nostro paese dal novero delle democrazie dotate, per l'elezione dei componenti del Parlamento nazionale, di sistemi elettorali a “ vocazione” maggioritaria. E questo è avvento, con l'abbandono del sistema elettorale prevalentemente maggioritario- uninominale a turno unico, in vigore dal '93 ( cd. Mattarellum) per introdurre, diversamente, una formula elettorale atipica e di problematica qualificazione, che contiene al suo interno significativi elementi di natura proporzionale.

    Prima però di entrare nel merito dell'analisi, è bene circoscrivere le due formule elettorali quella proporzionale e quella maggioritaria a due mere ipotesi di scuola che nella realtà e complessità dei sistemi elettorali ( nazionale e sovranazionali) tendono a confondersi l'una con l'altra. Infatti, difficilmente, si può parlare a priori di sistemi tout court maggioritari, come del resto è difficile pensare a sistemi tipicamente imperniati nella logica proporzionale. Esistono, diversamente, modelli complessi e misti che tendono a sintetizzarsi con elementi e tratti tipici dell'uno o dell'altro sistema. Ecco perché anche la Legge Calderoli, meglio conosciuta come “Porcellum” non può scostarsi da queste premesse logiche e fenomenologiche, per indirizzarsi, diversamente, su una valutazione d' insieme che tenga presente gli aspetti positivi o negativi della legge, ma al riparo da facili contrapposizioni filosofiche che hanno per decenni contraddistinto i fautori dell'uno o dell'altro sistema elettorale.

    Detto questo, come anticipato - ad inizio articolo – dopo la breve parentesi in senso maggioritaria dal '93 al 2005, oggi si è ritornati - almeno in una visione di facciata - al meccanismo di riparto di seggi in Parlamento legato alla formula proporzionale, che si differenzia dal maggioritario per il fatto di essere considerato maggiormente dotato di elementi di democraticità, e per il diverso meccanismo di riparto dei seggi. Infatti, il sistema elettorale maggioritario, tende a dare maggiore stabilità all'ordinamento, attribuendo i seggi in palio ai candidati che abbiano ottenuto la maggioranza dei voti, ma va di riflesso a penalizzare quelle forze politiche meno rappresentative. Ragion per cui, già i nostri Padri Costituenti si espressero manifestamente per un sistema proporzionale puro, che avesse nella logica di “ una testa un voto” la sua caratteristica elettiva. E ciò , per dare rappresentanza anche alle più piccole forze elettorali, e di contro scongiurare alla radice la possibilità di un'ipotetica riaffermazione di solide maggioranze, ritenute - giusto o torto per il volgersi della storia pregressa – pericolose per il concetto stesso di democrazia. E riconoscendo, altresì, al concetto di rappresentatività una posizione valoriale di superiorità rispetto a quello di “stabilità e governabilità”. Cosa che del resto ha accompagnato e permeato l'intero assetto pluripartitico della Prima Repubblica, e per certi versi anche della Seconda, dove le forze residuali e marginali hanno pesato sia in termini di stabilità delle alleanze politiche che sulla durata dei Governi.

    Andando ad analizzare gli elementi peculiari di questo sistema elettore, si riscontra sin da una prima lettura che si tratta di un “proporzionale di coalizione”, ovvero si riconosce un premio di maggioranza in favore della lista o coalizione di liste reciprocamente collegate che ottengono la maggioranza di voti in termini non assoluti ma relativi. Con la previsione ulteriore, per accentuare la selettività del meccanismo di riparto dei seggi, di una soglia di sbarramento diversa per la Camera e per il Senato. Difatti alla Camera dei Deputati, tale sistema si articola nel modo seguente: possono concorrere al riparto dei seggi soltanto le coalizioni di liste che abbiano ottenuto almeno il 10 per cento dei suffragi, e sempre che contengono al loro interno una lista che abbia raggiunto il 2 per cento dei consensi. Se, invece, una lista abbia optato per correre da sola, senza legarsi, deve ottenere almeno il 4 per cento dei voti a livello nazionale. All'interno, poi, delle singole coalizioni, concorrono alla ripartizione dei seggi le liste che abbiano superato il 2 per cento dei voti, nonché la lista cosiddetta “miglior perdente”, vale a dire quella che, tra tutte le liste al di sotto della soglia del 2 per cento, abbia ottenuto la percentuale di voti più elevata.

    Per quanto riguarda il Senato della Repubblica, in ossequio alla devoluzione di poteri in senso federale avviata nel lontano 1999, e poi confermata nel 2001 e approdata oggi nel federalismo fiscale di inizio anno, il collegio elettorale di riparto dei seggi non è - come ricordato per la Camera - su scala nazionale ma regione per regione. Ciò, implica che anche il premio di maggioranza e la soglia di sbarramento siano da calcolare su base regionale, e cioè il 3 per cento dei consensi per le liste coalizzate, e per quelle invece che concorrono da sole, la soglia si alza all'8 per cento sempre su base regionale. E' evidente che una simile impostazione, su due livelli , nazionale e regionale, crea all'indomani del voto popolare una situazione di alea - in merito alle condizioni di governabilità - che incide fortemente sull'efficacia e sulla ragionevolezza del impianto generale del sistema elettorale. Ragione quest'ultima che, da sola, implica de iure contendo, la necessità di accompagnare alla riforma della legge elettorale, anche una riforma di sistema per il superamento del bicameralismo perfetto, che non imponga al Governo di chiedere la fiducia in ambo i rami del Parlamento.

    Altro elemento caratterizzante la presente legge, e che denota anche una sua originalità per quanto riguarda la nostra cultura storica in termni di sistemi elettorali, e al tempo stesso sotto certi punti di vista ha rappresentato una sorta di casus belli, essa a riguardo il carattere del voto, che sia alla Camera che al Senato si esprime con una lista bloccata di candidati, che si traduce in un sistema di scorrimento di lista. In altri termini, sono i partiti a scegliere nelle l'ordine di scorrimento all'interno della lista, e cioè sono i dirigenti di partito a decidere chi ha le maggiori chance di essere eletto nel Parlamento. Questo sta a significare che l'elettorato, si trova a esprimere la propria preferenza su un simbolo che richiama uno schieramento e un leader, nonché un programma, ma che di fatto alcun potere sulla scelta del candidato. Cosa che da più parti, insieme all'ampiezza del collegio, che per la Camera addirittura coincide con il territorio nazionale, rimane una delle critiche di maggior rilievo al testo in esame. Si è finito, così, nel determinare un rilevante fattore di allontanamento e di incomunicabilità tra elettori ed eletti, e lo si è fatto minando per sano rapporto di responsabilità politica che lega il corpo elettorale ed i suoi rappresentati. Sotto questo profilo, dunque, l'elemento maggiormente criticabile della “legge Calderoli” non va rintracciato, tanto, sull'opzione per il sistema delle liste bloccate in sé - che escludono la possibilità per l'elettore di esprimere preferenze – quanto, invece, nell'aver optato per un modello di lista “lungo”, vale a dire collocato all'interno di circoscrizioni, in cui, nella stragrande maggioranza dei casi, gli elettori non riescono neppure a conoscere l'identità dei candidati del partito che votano.
    Più ragionevole sarebbe apparsa, invece, la scelta per un modello di circoscrizioni elettorali di più limitate dimensioni, in cui potessero concorrere liste bloccate brevi, proprio come accade, ad esempio, nel modello spagnolo. Ragion per cui, è apprezzabile come ipotesi di riforma elettorale, e che si sente circolare nei media nazionali, della volontà di ampi settori della maggioranza di conservare sostanzialmente l'attuale meccanismo delle liste bloccate ma introducendo una sorta di obbligo per i partiti alla consultazione preventiva degli elettori nella selezione dei candidati al Parlamento. “Un testo del genere lo stà preparando uno dei maggiori esperti di sistemi elettorali del centrodestra, Peppino Calderisi” come si evince dalle colonne del “il Foglio “di Giuliano Ferrara del 4 marzo.

    Infine concludo, con una verità di fondo e che è stata bene sintetizzata da un noto parlamentare aretino a proposito di riforma della legge elettorale: “ Siamo sempre li'. I partiti scaricano sulla legge elettorale le loro insufficienze e aggiungono danno al danno.”
  • Porcellum: Si può parlare di ritorno al proporzionale?

    La controversa approvazione della legge Calderoli (21 dicembre 2005, n. 270 ) avvenuta all'estremo limite finale della XIV legislatura, ha determinato - almeno formalmente - l'esclusione del nostro paese dal novero delle democrazie dotate, per l'elezione dei componenti del Parlamento nazionale, di sistemi elettorali a “ vocazione” maggioritaria. E questo è avvento, con l'abbandono del sistema elettorale prevalentemente maggioritario uninominale a turno unico, in vigore dal '93 ( cd. Mattarellum) per introdurre, diversamente, una formula elettorale atipica e di problematica qualificazione, che contiene al suo inteno significativi elementi di natura proporzionale.

    Prima però di entrare nel merito dell'analisi, è bene circoscrivere le due formule elettorali quella proporzionale e quella maggioritaria a due mere ipotesi di scuola che nella realtà e complessità dei sistemi elettorali ( nazionale e sovranazionali) tendono a confondersi l'una con l'altra. Infatti, difficilmente, si può parlare a priori di sistemi tout court maggioritari, come del resto è difficile pensare a sistemi tipicamente imperniati nella logica proporzionale. Esistono, diversamente, modelli complessi e misti che tendono a sintetizzarsi con elementi e tratti tipici dell'uno o dell'altro sistema. Detto questo, come anticipato - ad inizio articolo – l'Italia dopo la parentesi in senso maggioritaria dal '93 al 2005, oggi è ritornata - almeno in una visione di facciata - al meccanismo di riparto di seggi in Parlamento legato alla formula proporzionale che si differenzia dal maggioritario per il fatto di essere considerato maggiormente dotato di elementi di democraticità, e per il diverso meccanismo di riparto dei seggi. Infatti, il sistema elettorale maggioritario, tende a dare maggiore stabilità all'ordinamento, attribuendo i seggi in palio ai candidati che abbiano ottenuto la maggioranza dei voti, ma va di riflesso va penalizzare quelle forze politiche meno rappresentative. Ragion per cui, già i nostri Padri Costituenti si espressero manifestamente per un sistema proporzionale puro, che avesse nella logica di “ una testa un voto” la sua caratteristica elettiva. E ciò , per dare rappresentanza anche alle più piccole forze elettorali, e di contro scongiurare alla radice la possibilità di un'ipotetica riaffermazione di solide maggioranze, ritenute - giusto o torto per il volgersi della storia – pericolose per il concetto stesso di democrazia. E riconoscendo, altresì, al concetto di rappresentatività una posizione valoriale di superiorità rispetto a quello di “stabilità e governabilità”. Cosa che del resto ha accompagnato e permeato l'assetto pluripartitico della prima Repubblica, e per certi versi anche della seconda, dove le forze residuali e marginali hanno pesato in termini di stabilità di alleanze politiche e sulla durata dei governi.

    Andando ad analizzare gli elementi peculiari di questo sistema elettore, si riscontra sin da una prima lettura che si tratta di un “proporzionale di coalizione”, ovvero si riconosce un premio di maggioranza in favore della lista o coalizione di liste reciprocamente collegate che ottengono la maggioranza di voti in termini non assoluti ma relativi. Il legislatore, ha previsto poi, per accentuare la selettività del meccanismo di riparto dei seggi, una soglia di sbarramento diversa per la Camera e per il Senato. Infatti alla Camera dei Deputati, tale sistema si articola nel modo seguente: possono concorrere al riparto dei seggi soltanto le coalizioni di liste che abbiano ottenuto almeno il 10 per cento dei suffragi, e sempre che contengono al loro interno una lista che abbia raggiunto il 2 per cento. Se, invece, una lista abbia optato per correre da sola, senza legarsi, deve ottenere almeno il 4 per cento dei voti a livello nazionale. All'interno, poi, delle singole coalizioni, concorrono alla ripartizione dei seggi le liste che abbiano superato il 2 per cento dei voti, nonché la lista cosiddetta “miglior perdente”, vale a dire quella che, tra tutte le liste al di sotto della soglia del 2 per cento, abbia ottenuto la percentuale di voti più elevata.

    Per quanto riguarda il Senato della Repubblica, in ossequio alla devoluzione in senso federale avviata nel lontano 1999, e poi confermata nel 2001 e approdata oggi nel federalismo fiscale di inizio anno, il collegio elettorale di riparto dei seggi non è su scala nazionale ma regione per regione. Ciò, implica che anche il premio di maggioranza e la soglia di sbarramento siano da calcolare su base regionale, e cioè il 3 per cento dei consensi per le liste coalizzate, per quelle invece che concorrono da sole, la soglia si alza all'8 per cento sempre su base regionale. E' evidente che una simile impostazione, su due livelli , nazionale e regionale, crea all'indomani del voto popolare una situazione di alea in merito alle condizioni di governabilità, cosa del resto accaduta alla legislatura precedente a quella attuale.
  • Proporzionale.

    La controversa approvazione della legge Calderoli (21 dicembre 2005, n. 270 ) avvenuta all'estremo limite finale della XIV legislatura, ha determinato - almeno formalmente - l'esclusione del nostro paese dal novero delle democrazie dotate, per l'elezione dei componenti del Parlamento nazionale, di sistemi elettorali a “ vocazione” maggioritaria. Con l'abbandono del sistema elettorale prevalentemente maggioritario, in vigore dal '93 ( cd. Mattarellum) per introdurre, diversamente, una formula elettorale atipica e di problematica qualificazione, ma comunque contenente significativi elementi di natura proporzionale.

    Prima di entrare nel merito dell'analisi, è bene circoscrivere le due formule elettorali: quella proporzionale e quella maggioritaria a due ipotesi di scuola che nella realtà e complessità dei sistemi elettorali tendono a confondersi l'una con l'altra. Infatti, difficilmente, si può parlare a priori di sistemi tout court maggioritari, come del resto è difficile pensare a sistemi tipicamente imperniati nella logica proporzionale. Esistono, diversamente, modelli complessi e misti che tendono a sintetizzarsi nella prassi con elementi e tratti tipici dell'uno o dell'altro sistema. In definitiva, è con questa logica di fondo che va conseguentemente letta anche la legge di riforma del sistema elettorale voluta dal legislatore attraverso il suo primo firmatario, l'allora Ministro Calderoli, e successivamente ribattezzata dallo stesso “Porcellum”.

    Come anticipato - ad inizio articolo – l'Italia dopo la parentesi dal '93 al 2005, oggi è ritornata - almeno in una visione di facciata - al meccanismo di riparto di seggi in Parlamento legato alla formula proporzionale che si differenzia dal maggioritario per il fatto di essere considerato maggiormente dotato di elementi di democraticità, e per il diverso meccanismo di riparto dei seggi. Il maggioritario, diversamente, tende a dare maggiore stabilità all'ordinamento, attribuendo i seggi ai candidati che abbiano ottenuto la maggioranza dei voti, ma va a penalizzare quelle forze politiche meno rappresentative. Ragion per cui, già i nostri Padri Costituenti si espressero manifestamente per un sistema proporzionale puro, che avesse nella logica di “ una testa un voto” la sua caratteristica elettiva. E ciò , per dare rappresentanza anche alle più piccole forze elettorali, e per scongiurare alla radice la possibilità di riaffermazione di solide maggioranze, ritenute - giusto o torto – pericolose per il concetto di democrazia. Riconoscendo , altresì, al concetto di rappresentatività una posizione valoriale di superiorità rispetto a quello di “stabilità e governabilità”.
  • Federalismo, storia di un percorso a tappe di riforma dell’assetto statuale

    L’ultimo tassello di un percorso in senso federalista è stato messo a punto con la legge delega del 2009 che anticipa nei suoi principi il cd. “federalismo fiscale”, cioè autonomia e responsabilità finanziaria a partire dai governi locali e regionali. Dove per autonomia s’intende la capacità dei governi a tutti i livelli di avere propri tributi, e di essere responsabili per la gestione dei servizi e dei bisogni collettivi che ad essi fanno riferimento. La presente riforma, che ricordo andrà in regime non prima del 2014 e che necessiterà di un intervento integrativo e attuativo del Governo, porrà fine al “centralismo”che ha contraddistinto la storia dell’Italia repubblicana e pre-repubblicana. Furono infatti i nostri padri costituenti, pur riconoscendo forme di autonomia regionale, a contribuire e a rafforzare l’idea di Stato-Nazione in senso unitario, da anteporre a quell’idea pluralistica/particolaristica che vedeva negli enti intermedi, un limite all’efficienza e all’efficacia dell’azione statuale.

    Di pari passo però, in Italia come un po’ in tutt’Europa, nella metà del secolo scorso, si evidenziò un movimento culturale di segno contrario che chiedeva il superamento o almeno un grosso temperamento di quell’idea di unitarismo statuale che vedeva nello Stato centrale l’elemento qualificante dell’assetto costituzionale novecentesco. Si riteneva che per far fronte ai nuovi bisogni di una società in continua evoluzione sia in termini sociali sia di rappresentanza popolare, abbisognasse un generale ripensamento nell’approccio di gestione di beni e servizi a rilevanza collettiva; ampliando la partecipazione diretta dei cittadini, anche attraverso l’uso di operatori anche privati, in condizione di parità e nella garanzia di livelli di prestazione essenziali. Dunque non più una società ripartita su un livello verticale di rapporti fra cittadino e Stato, ma ripensata in un’ottica paritetica fra cittadino e cittadino o cittadino e comunità di appartenenza.
    Fu il Legislatore del ’97-’98 (legge Bassanini, dal suo estensore) con atti aventi forza di legge a creare le condizioni per garantire maggiore partecipazione del cittadino nella gestione della cosa pubblica col’introduzione del principio di sussidiarietà nella gestione dei servizi; ora decentrata al livello più vicino al cittadino, salvo esigenze di congruità fra funzione e livello, da demandare all’organo superiore. La Bassanini nei fatti, ebbe così , il merito di introdurre il federalismo amministrativo, pur rimanendo immutata la cornice costituzionale retta sul parallelismo fra potestà legislativa e amministrava regionale; e quest’ultima da delegare all’organo inferiore. Il passo successivo, nel senso di una maggiore consapevolezza intesa a capovolgere la responsabilità politica e amministrativa, si ebbe con la riforma costituzionale del 2001, che rese ufficiale, quel percorso iniziato dal legislatore primario e ora accompagnato da un intervento di modifica del Titolo V della carta costituzionale. Il testo venne approvato a maggioranza assoluta in Parlamento; fu poi confermato dal corpo elettorale nell’ottobre del 2001, che lo benedì però con un suffragio molto inferiore alle attese.
    Ora la potestà legislativa dello Stato è esclusiva in determinate materie; in altre c’è una competenza concorrente, dove lo Stato indica la legge quadro a cui il legislatore regionale – pur con spazi di manovra – deve attenersi; per tutte le altre materie vige la potestà legislativa regionale. Anche la potestà amministrativa, in coerenza con quanto postulato dal legislatore del ’97- ’98, rimarca il generale riconoscimento di decentramento delle funzioni in capo al Comune, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base del principio di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Cosi recita il nuovo articolo 118 Costituzione.
    Questo a grandi linee, il percorso storico e culturale che ha generato la riforma in senso federalista voluta dal nostro legislatore e iniziata - come ricordato - dalla Bassanini, passando per la riforma del titolo V e ora dalla legge del 2009 sul federalismo fiscale.
    A titolo esemplificativo, la riforma in senso federale è immaginabile come un “ grande edificio” avente a base la Riforma Bassanini del ’97-98 sul decentramento amministrativo, e sulla quale si è andata a inserire l’autonomia legislativa regionale con la riforma del Titolo V; e da ultimo si è aggiunta l’autonomia tributaria, con il provvedimento del maggio 2009.
    Ora se i primi due pilastri del nuovo ordinamento costituzionale, appaiono fondamentali per consolidare delle buone basi per un “ efficace federalismo”. Il terzo pilastro della riforma, quello fiscale, appare ora più che mai necessario, posto che con il decentramento fiscale, si dovrebbe garantire il finanziamento integrale (sulla base di costi standard) delle prestazioni essenziali concernenti i diritti civili e sociali (sanità, istruzione ed assistenza) nonché un adeguato finanziamento del trasporto pubblico locale sulla base di specifici criteri. Ed ecco spiegata la preminenza del terzo pilastro sugli altri.
    Bene, dunque, dibattere sugli aspetti politici (opportunità o meno della sua introduzione) e giuridici della riforma (principi e criteri direttivi relativi ai diversi tributi degli enti locali), senza ignorare però, un altro importante e decisivo argomento, cioè quello relativo all’organizzazione degli uffici fiscali preposti al controllo, all’accertamento ed alla riscossione dei rispettivi tributi nonché quello del contenzioso tributario. E’ chiaro che quanto più organizzati, competenti ed efficienti saranno gli uffici tributi dei vari enti locali tanto maggiore sarà il finanziamento degli stessi; viceversa, se gli uffici non saranno istituiti ed organizzati in modo adeguato ed efficiente gli enti locali andranno incontro a seri rischi di bilancio.
    Queste le ragioni di fondo, che hanno portato il legislatore ad accompagnare la legge delega del 2009, col’ istituzione di una commissione paritetica propedeutica, atta a definire i contenuti dei decreti attuativi che dovranno essere predisposti entro due anni dall'entrata in vigore, e ulteriori cinque anni di regime transitorio. Come ricordato sopra, dall’attuazione del terzo pilastro dipenderà molto dell’efficacia del nuovo assetto fiscale, territoriale e costitutivo del nuovo Stato. Per questo appare condivisibile, la scelta fatta dal Parlamento di temporeggiare su un intervento tanto importante quanto dirompente sull’intero assetto statuale.
    Infine come corollario di un progetto di riforma costituzionale, avviato in parte già nella XIV legislatura, ma non andato a buon fine, si sta pensando anche ad accompagnare in questo quadro autonomista e pluralista, una riforma che tenda a riequilibrare la forza centrifuga del federalismo, coniugando le giuste istanze del territorio, con l’esigenza di prontezza e unitarietà della manovra di interesse nazionale. Sembra prendere valore l’idea di un forte premierato e un correttivo per quanto riguarda le funzioni delle due Camere. Obiettivo: superare il bicameralismo perfetto del legislatore costituente del 1948, e riconoscere poteri e funzioni differenti fra le diverse istituzioni di rappresentanza, l’una ancorata al disegno in senso federalista; l’altra con poteri di sfiducia sulla persona del Primo Ministro. Ad oggi maggioranza e opposizione, sembrano muoversi sull’originale Bozza Violante: importane punto di partenza per un futuro assetto istituzionale incentrato su rigore, unità nazionale e interessi locali.
    Pubblicato su l'Eco del Tevere - edizione estiva - 2010

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