Prima però di entrare nel merito dell'analisi, è bene circoscrivere le due formule elettorali quella proporzionale e quella maggioritaria a due mere ipotesi di scuola che nella realtà e complessità dei sistemi elettorali ( nazionale e sovranazionali) tendono a confondersi l'una con l'altra. Infatti, difficilmente, si può parlare a priori di sistemi tout court maggioritari, come del resto è difficile pensare a sistemi tipicamente imperniati nella logica proporzionale. Esistono, diversamente, modelli complessi e misti che tendono a sintetizzarsi con elementi e tratti tipici dell'uno o dell'altro sistema. Ecco perché anche la “Legge Calderoli”, meglio conosciuta come “Porcellum” non può scostarsi da queste premesse logiche e fenomenologiche, per indirizzarsi, diversamente, su una valutazione d' insieme che tenga presente sia degli aspetti positivi che negativi della legge, ma anche si tenga al riparo da facili contrapposizioni filosofiche che hanno per decenni contraddistinto i fautori dell'uno o dell'altro sistema elettorale.
Detto questo, come anticipato - ad inizio articolo – dopo la breve parentesi in senso maggioritaria dal '93 al 2005, oggi si è ritornati - almeno in una visione di facciata - al meccanismo di riparto di seggi in Parlamento legato alla formula proporzionale, che si differenzia dal maggioritario per il fatto di essere considerato maggiormente dotato di elementi di democraticità , e per il diverso meccanismo di riparto dei seggi. Infatti, il sistema elettorale maggioritario, tende a dare maggiore stabilità all'ordinamento, attribuendo i seggi in palio ai candidati che abbiano ottenuto la maggioranza dei voti, ma va di riflesso a penalizzare quelle forze politiche meno rappresentative. Ragion per cui, già i nostri Padri Costituenti si espressero manifestamente per un sistema proporzionale puro, che avesse nella logica di “ una testa un voto” la sua caratteristica elettiva. E ciò , per dare rappresentanza anche alle più piccole forze elettorali, e di contro scongiurare alla radice la possibilità di un'ipotetica riaffermazione di solide maggioranze, ritenute - giusto o torto per il volgersi della storia pregressa – pericolose per il concetto stesso di democrazia. E riconoscendo, altresì, al concetto di rappresentatività una posizione valoriale di superiorità rispetto a quello di “stabilità e governabilità ”. Cosa che del resto ha accompagnato e permeato l'intero assetto pluripartitico della Prima Repubblica, e per certi versi anche della Seconda, dove le forze residuali e marginali hanno pesato sia in termini di stabilità delle alleanze politiche che sulla durata dei Governi.
Andando ad analizzare gli elementi peculiari di questo sistema elettore, si evince sin da una prima lettura che si tratta di un “proporzionale di coalizione”, ovvero si riconosce un premio di maggioranza in favore della lista o coalizione di liste reciprocamente collegate che ottengono la maggioranza di voti in termini non assoluti ma relativi. Con la previsione ulteriore, per accentuare la selettività del meccanismo di riparto dei seggi, di una soglia di sbarramento diversa per la Camera e per il Senato. Difatti alla Camera dei Deputati, tale sistema si articola nel modo seguente: possono concorrere al riparto dei seggi soltanto le coalizioni di liste che abbiano ottenuto almeno il 10 per cento dei suffragi, e sempre che contengono al loro interno una lista che abbia raggiunto il 2 per cento dei consensi. Se, invece, una lista abbia optato per correre da sola, senza legarsi, deve ottenere almeno il 4 per cento dei voti a livello nazionale. All'interno, poi, delle singole coalizioni, concorrono alla ripartizione dei seggi le liste che abbiano superato il 2 per cento dei voti, nonché la lista cosiddetta “miglior perdente”, vale a dire quella che, tra tutte le liste al di sotto della soglia del 2 per cento, abbia ottenuto la percentuale di voti più elevata.
Per quanto riguarda il Senato della Repubblica, in ossequio alla devoluzione di poteri in senso federale avviata nel lontano 1999, e poi confermata nel 2001 e approdata oggi nel federalismo fiscale di inizio anno, il collegio elettorale di riparto dei seggi non è - come ricordato per la Camera - su scala nazionale ma regione per regione. Ciò, implica che anche il premio di maggioranza e la soglia di sbarramento siano da calcolare su base regionale, e cioè il 3 per cento dei consensi per le liste coalizzate, e per quelle invece che concorrono da sole, la soglia si alza all'8 per cento sempre su base regionale. E' evidente che una simile impostazione, su due livelli , nazionale e regionale, crea all'indomani del voto popolare una situazione di alea - in merito alle condizioni di governabilità - che incide fortemente sull'efficacia e sulla ragionevolezza del impianto generale del sistema elettorale. Ragione quest'ultima che, da sola, implica de iure contendo, la necessità di accompagnare alla riforma della legge elettorale, anche una riforma di sistema per il superamento del bicameralismo perfetto, che non imponga – nelle migliori ipotesi - al Governo di chiedere la fiducia in ambo i rami del Parlamento.
Altro elemento caratterizzante la presente legge - e che denota anche una sua originalità per quanto riguarda la nostra cultura storica in termini di sistemi elettorali - e al tempo stesso sotto certi punti di vista ha rappresentato una sorta di casus belli, ha a riguardo il carattere del voto, che sia alla Camera che al Senato si esprime con una lista bloccata di candidati, che si traduce in un sistema di scorrimento di lista. In altri termini, sono i partiti a scegliere nelle l'ordine di scorrimento all'interno della lista, e cioè sono i dirigenti di partito a decidere chi ha le maggiori chance di essere eletto nel Parlamento. Questo sta a significare che l'elettorato, si trova a esprimere la propria preferenza su un simbolo che richiama uno schieramento e un leader, nonché un programma, ma che di fatto non ha alcun potere sulla scelta del candidato. Cosa che da più parti, insieme all'ampiezza del collegio, che per la Camera addirittura coincide con il territorio nazionale, rimane una delle critiche di maggior rilievo al testo in esame. Si è finito, così, col determinare un rilevante fattore di allontanamento e di incomunicabilità tra elettori ed eletti, e lo si è fatto minando quel sano rapporto di responsabilità politica che lega il corpo elettorale ed i suoi rappresentati. Sotto questo profilo, dunque, l'elemento maggiormente criticabile della “legge Calderoli” non va rintracciato, tanto, sull'opzione per il sistema delle liste bloccate in sé - che escludono la possibilità per l'elettore di esprimere preferenze – quanto, invece, nell'aver optato per un modello di lista “lungo”, vale a dire collocato all'interno di circoscrizioni, in cui, nella stragrande maggioranza dei casi, gli elettori non riescono neppure a conoscere l'identità dei candidati del partito che votano.
Più ragionevole sarebbe apparsa, invece, la scelta per un modello di circoscrizioni elettorali di più limitate dimensioni, in cui potessero concorrere liste bloccate brevi, proprio come accade, ad esempio, nel modello spagnolo. Ragion per cui, è apprezzabile come ipotesi di riforma elettorale, e che sembra circolare da ambienti della maggioranza attuale, la volontà di conservare sostanzialmente l'attuale meccanismo delle liste bloccate ma introducendo una sorta di obbligo per i partiti alla consultazione preventiva degli elettori nella selezione dei candidati al Parlamento. “Un testo del genere lo stà preparando uno dei maggiori esperti di sistemi elettorali del centrodestra, Peppino Calderisi” come si evince dalle colonne del “il Foglio “di Giuliano Ferrara del 4 marzo.
Infine concludo, con una verità di fondo e che è stata bene sintetizzata da un noto parlamentare aretino a proposito di riforma della legge elettorale: “ Siamo sempre li'. I partiti scaricano sulla legge elettorale le loro insufficienze e aggiungono danno al danno.”